martedì 16 luglio 2024

SISTEMA IMPRESA

07-05-2018

«L’Iva non si tocca»

Governo vara il Def, il presidente di Sistema Impresa Berlino Tazza: «Politici finiscano con le liti e blocchino aumento dell’Iva». Imprese e posti di lavoro: «Serve più formazione»




Disinnescare l’applicazione delle clausole di salvaguardia per evitare l’aumento dell’Iva, abbattere il cuneo fiscale e valorizzare la formazione, favorire il cambiamento in direzione dell’Impresa 4.0, rinnovare le relazioni industriali. Sono queste le urgenze di cui dovrebbe occuparsi il nuovo governo secondo il presidente di Sistema Impresa Berlino Tazza. «Il 4 marzo gli italiani hanno votato per il cambiamento, ma da alcuni leader politici e da alcuni partiti il segnale non è stato colto e assistiamo a liti e capricci che allontano i cittadini dalla politica» dice Tazza che guida anche la confederazione lombarda e nazionale di Sistema Impresa. «Imprese, famiglie, giovani vogliono risposte concrete» continua Tazza. «E’ in corso la guerra dei dazi fra Trump e la Cina, l’Europa è destinata ad essere coinvolta. L’Italia deve avere un esecutivo autorevole per tutelare i propri interessi. Non dimentichiamo che la grande forza del Made in Italy viene, prima di tutto, dall’export».

 

Intanto, però, il governo vara il Def con l’aumento dell’Iva…

«L’hanno definita una finanziaria a politiche invariate perché manca la parte relativa alle riforme e include l’aumento dell’Iva dal momento che non è esplicitato il modo di disinnescare le clausole di salvaguardia. L’Iva ridotta del 10% passerà nel 2019 all’11,5% e nel 2020 al 13%. L’Iva ordinaria del 22% passerà dal 24,2% del 2019 al 24,9% del 2020 fino al 25% del 2021. E’ necessario recuperare 12,4 miliardi per il 2019 e quasi 20 miliardi per il 2020. Il che sta a significare un incremento della tassazione oppure una riduzione della spesa pubblica. E’ ovviamente questa seconda strada che dovremmo percorrere ma gli esecutivi nazionali continuano a rinviare le politiche di risanamento. E in ogni caso, al momento, non c’è nessun governo che possa mettere mano alla situazione»

 

Eppure il Def è stato presentato in una luce positiva…

«Non capisco l’entusiasmo di Gentiloni e Padoan. Le stime di crescita del Pil sono più basse di quei Paesi che in Europa sono in grado di competere davvero con l’Italia. Il debito supera i 2mila miliardi di stock e comporta il pagamento di 60-70 miliardi di interessi ogni 12 mesi. Una cifra che vale il 5% del Pil e che comprime la nostra capacità d’investimento. L’occupazione ristagna. Il cuneo fiscale italiano è superiore alla media europea di 10 punti. Il Jobs Act è un rimedio temporaneo e insufficiente. Servono interventi strutturali. Il tasso di disoccupazione continua ad oscillare intorno all’11% relegando l’Italia in coda alle classifiche dell’eurozona. E parliamo di una nazione spaccata in due dove il Sud, se si escludono poche enclave felici, è in uno stadio di perenne galleggiamento. Anche e soprattutto per l’assenza di una vera politica industriale».

 

 

 

Ma perché è importante evitare l’aumento dell’Iva?

«Le clausole di salvaguardia sono pronte ad entrare in funzione attraverso l’aumento delle aliquote. Una crescita della tassazione indiretta sarebbe un danno per molti settori produttivi, a partire dal commercio, nuocendo a tutto il mondo delle imprese e delle professioni. La contrazione dei consumi è il passaggio conseguente come la lievitazione del costo della vita. Nuovi sacrifici per le famiglie, costrette a subire una riduzione della capacità di spesa, con una evidente ripercussione sulla domanda di beni che è destinata a gravare sui bilanci delle imprese».

 

Imprese che, stando alle ultime rilevazioni, sono tornate a investire…

«Si stanno facendo passi avanti come è stato rilevato dal rapporto dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro anche se sull’Impresa 4.0, per esempio, c’è molta confusione. Il fenomeno è ancora a macchia di leopardo. Inoltre, nel dibattito pubblico, si stanno affermando stereotipi negativi. Mi riferisco alla disoccupazione tecnologica. Le imprese sono giunte al bivio: o innovano o soccombono. Non siamo più ai tempi della lira quando bastava svalutare la moneta per essere più competitivi. Oggi lo scenario è cambiato, siamo nell’area dell’euro, e in ogni caso anche in un regime monetario diverso non potremmo mai rivaleggiare con i costi fissi dei Paesi emergenti. Il Made in Italy è la risposta vincente: qualità delle filiere, cura del prodotto, innovazione, eccellenza nei mercati di nicchia, flessibilità ed efficienza. E’ questo il modello che può assicurare crescita e ricchezza durature. E quindi occupazione certa. La sfida della formazione diventa decisiva per sostenere il percorso dell’adeguamento delle conoscenze. Una necessità che non riguarda più in esclusiva i grandi gruppi ma si estende anche alle Pmi. Serve un cambio totale di mentalità. Con l’impresa 4.0 l’intraprendenza diventa un elemento che non è più prerogativa dell’imprenditore ma accompagna per tutta la vita il lavoratore che viene responsabilizzato e spinto a misurarsi con una crescita continua delle proprie esperienze. Non è un caso che le realtà aziendali che investono in Impresa 4.0 mostrino livelli migliori di produttività e di volumi, vocazione all’export, contribuiscano al rafforzamento delle filiere e alla specializzazione dei servizi».

 

 

In che modo si aiuta la diffusione dell’Impresa 4.0?

«Siamo arrivati al punto che il presidente di un’associazione di categoria ha scritto direttamente alle famiglie degli studenti pregandole, al momento dell’iscrizione della scuola superiore, di fare scelte in linea con le attese del mondo del lavoro: operai specializzati, tecnici, addetti ai macchinari e agli impianti. Appelli di questo tipo, fatti dagli stessi imprenditori, si ripetono quasi ovunque nelle regioni più sviluppate del Paese. E’ il segnale che c’è una falla nell’organizzazione dei percorsi formativi. Bene i progetti di alternanza scuola-lavoro e la valorizzazione del contratto di apprendistato. Ma sulla formazione diretta alle imprese e ai lavoratori l’Italia, a causa della miopia dei nostri governativi, sta regredendo. Il sistema dei fondi interprofessionali, parliamo di 19 realtà che hanno un bacino di utenti pari a 10,6 milioni di lavoratori per quasi un milione di imprese, è l’arma principale. Ma i recenti esecutivi hanno attuato una politica folle erodendo le risorse destinate alla formazione dei lavoratori. Il sistema viene finanziato dalle imprese che decidono di destinare alla formazione dei dipendenti lo 0.30% dei contributi versati all’Inps. L’importo, però, è andato riducendosi dal momento che una quota sempre più importante è stata utilizzata per fare altro. Oggi la formazione copre soltanto due terzi del contributo. L’Italia si sta comportando in modo opposto ai partner europei più avanzati. La Francia investe sei volte di più con il vantaggio che il diritto alla formazione individuale per il lavoratore si estende anche oltre lo spazio aziendale. Una strada che dovremo percorrere anche noi allargando la possibilità di formazione agli stessi imprenditori dal momento che le Pmi sono molto spesso aziende familiari e il rinnovo della conoscenza è considerato l’ennesimo costo fisso a carico di bilanci già provati dalla lunga crisi. Un governo responsabile dovrebbe ripristinare l’impiego integrale dello 0,30 facendo della formazione il volano dello sviluppo e della competitività».

 

I fondi interprofessionali possono giocare un ruolo strategico?

«Sistema Impresa partecipa insieme a Confsal al Fondo Formazienda che proprio in base all’ultimo rapporto dell’Anpal è, tra i 19 fondi esistenti, la realtà che è cresciuta di più con oltre 100mila aziende e quasi 690mila dipendenti. Una penetrazione che si concentra nelle regioni del Nord e che interessa prevalentemente le Pmi anche se la scala dimensionale delle aziende sta aumentando. Se il mito del posto fisso non esiste più è evidente che la continuità dell’impiego si può raggiungere solo dentro ecosistemi formativi dove le skills si si rinnovano. Fino al 2015 solo 4 imprese su 10 facevano formazione, oggi 6 su 10. E sono soprattutto le Pmi. Le aree strategiche sono cinque: relazioni e risorse umane; gestione e organizzazione; innovazione e Ict; amministrazione, finanza e controllo; marketing e vendite per l’internazionalizzazione. Misure come il reddito di cittadinanza sono neo-assistenzialiste e passive. Serve proprio il contrario».

 

Nuove imprese e nuovi lavoratori. Ma le relazioni industriali?

«Un mondo imprenditoriale che si sta riformando necessità di relazioni industriali rinnovate. Anche le Pmi stanno conoscendo i benefici in termini di produttività e di competitività che è in grado di realizzare la ricerca del benessere a livello aziendale. Il welfare a misura d’impresa si sta radicando tramite i contratti integrativi, aziendali e territoriali. Sistema Impresa è molto attiva su questo fronte proprio perché crediamo che non ci sia luogo migliore dell’azienda per testare prassi e regole. Il contrato nazionale è un punto di avvio che va implementato con margini di flessibilità nelle singole realtà produttive premiando la carriera individuale. Il vero valore aggiunto, anche per le aziende, è la persona».

 

 

  • ebiten nazionale
  • formazienda
  • fidicom asvifidi
  • fondo di assistenza sanitaria