martedì 16 luglio 2024

SISTEMA IMPRESA

07-03-2017

«L’Unione Europea deve cambiare se non vuole condannarsi al declino»

L’intervista a Berlino Tazza, presidente di Sistema Impresa sulla crisi della UE: il dikat dell’austerità e l’euro pesante, il deficit democratico, le trappole del TTIP e del CETA per il Made in Italy. «Rivedere i trattati per un’Europa diversa




Un’Europa che deve tornare a fare gli interessi dei popoli che la costituiscono e che deve essere percepita dai cittadini come un valore aggiunto per le economie nazionali. «Recuperare lo spirito unitario che ha dato prova di funzionare efficacemente con l’istituzione del mercato unico è possibile, ma serve un’inversione di rotta rispetto alla situazione attuale» dichiara Berlino Tazza, presidente della Confederazione nazionale Sistema e Impresa. Ecco che cosa ci ha detto nell’intervista. 

L’Unione Europea ha ancora ragione di esistere o si tratta di un esperimento fallito?
«La forza dell’UE non risiede più nella proposta politica e istituzionale ma coincide con il mercato unico. Il successo del progetto comunitario è da rintracciarsi prevalentemente nella creazione di un’economia integrata grazie all’abbattimento delle barriere doganali e dei dazi. Una situazione che è stata condotta a suo tempo con equilibrio e ragionevolezza senza cadere in trappole mortali quali il TTIP o il CETA, che testimoniano quanto la tecnocrazia di Bruxelles non sia in grado di rispettare la sovranità dei Paesi membri. La libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi rappresenta la conquista più celebre dell’Unione anche se si tratta di un traguardo che risale al momento originario dei Trattati di Roma. Serve nuova linfa. Dopo il percorso che ha regalato all’Italia la leadership manifatturiera insieme alla Germania il sogno degli Stati Uniti d’Europa sembra essersi definitivamente arenato». 

Può essere più specifico?
«Abbiamo una moneta comune, l’euro, concepita ad uso e consumo del partner più forte, la Germania. L’economia tedesca che è sì manifatturiera e spiccatamente rivolta all’export ma lo è secondo una modalità del tutto differente rispetto a quella italiana. Il Made in Italy, per intenderci, è decisamente subordinato all’incidenza del prezzo finale.Vendiamo alimentari, veicoli e macchinari, prodotti che non hanno generalmente una base tecnologica avanzata pari a quella dei tedeschi. Da qui la convenienza ad avere una moneta più leggera che possa incidere positivamente sul prezzo finale. Un euro forte non ci favorisce. Nel 2016 il nostro surplus commerciale è stato di 52 miliardi di euro, ma la Germania ha raggiunto i 257 miliardi di euro. Angela Merkel contesta all’Italia lo sforamento del deficit e del debito dimenticando di aver violato sistematicamente i vincoli del ‘six pact’ sul surplus commerciale. Berlino crea ricchezza senza stimolare gli investimenti: un comportamento che dovrebbe essere sanzionato da Bruxelles come vengono sanzionati gli Stati che non rispettano il patto di stabilità. Ma alla Germania è concesso tutto». 

Sarebbe meglio abbandonare l’euro e tornare alla lira?
«E’ una suggestione ricorrente ma finora nessuno è andato oltre le ipotesi di scuola che risultano tanto affascinanti quanto poco monitorabili. La realtà ci dice che le due voci più critiche dei nostri conti, il debito e la bolletta energetica, diventerebbero intollerabili se tradotte in lire. Ciò che possiamo fare, invece, è modificare l’euro allineandolo alle richieste delle economie meridionali. Dobbiamo rivedere i parametri di Maastricht in senso meno restrittivo. Non possiamo più permetterci un disavanzo non superiore al 3% e un rapporto debito-Pil entro il 60%. Le correzioni sono fattibili e già Draghi alla guida della Bce ha fornito una risposta alternativa alla linea del rigore imposta dal ministro delle Finanze tedesco Schauble. Il quantitative easing è stato prolungato fino a dicembre 2017 per agevolare la ripresa dell’eurozona. Dal marzo 2015 al settembre 2016 la Bce ha comprato titoli di stato italiani per un valore superiore ai 176,2 miliardi. Una sorprendente iniezione di liquidità che rivela come in fondo l’Europa, su questa partita, abbia fatto il proprio dovere. Ma se gli impieghi alle imprese italiane sono calati di quasi il 3% con una riduzione di 26,4 miliardi di euro, c’è qualcosa che non va. Tocca al governo nazionale interrogarsi sul comportamento di un sistema bancario che resta ingessato nonostante la politica monetaria espansiva della Bce. La Commissione europea si attende un aumento del Pil pari allo 0,9% nel 2017 e all’1,1% nel 2018. Sono le stime più basse di tutta l’Unione. In Italia manca da troppo tempo una vera politica industriale. E nel frattempo rischiamo la procedura d’infrazione per debito eccessivo e dobbiamo recuperare 3,4 miliardi di euro dopo che il governo Renzi è venuto meno agli impegni presi. Il premier Gentiloni ha il compito ingrato di rimediare ma nel contesto critico che stiamo vivendo diventa complesso reperire le risorse per una manovra bis che vale lo 0,2% del Pil. Il Paese, al netto della propaganda politica, è sfiancato». 

Descrive un’Europa a luci e ombre. 
«E’ così che appare a tutti i commentatori più qualificati e agli stessi elettori che disertano le elezioni europee in percentuali decisamente maggiori rispetto alle consultazioni nazionali. Tre anni fa l’affluenza è stata di poco superiore al 57%. Una reazione assolutamente prevedibile dal momento che l’Unione non sembra essere in grado di mettere mano con efficacia ai problemi che affliggono il Paese. I flussi migratori sono fuori controllo con tutto ciò che ne consegue sul piano della sicurezza a causa della minaccia terroristica. I Paesi del Nord continuano a ritenere buono il Trattato di Dublino che vincola la nazione di primo sbarco a sostenere i costi dell’accoglienza. E’ una follia. Come lo è il piano predisposto nel 2015 da Bruxelles per ricollocare in 24 mesi 160mila migranti secondo il meccanismo delle quote obbligatorie. Intenzioni ottime, ma inattuate. A settembre 2016 sono stati ridistribuiti solo 1.400 migranti. Si tratta di disparità che portano i cittadini italiani, sul fronte della politica interna, a premiare le posizioni che contestano apertamente Bruxelles. Ormai tutte le forze politiche hanno assimilato nel proprio lessico toni fortemente euroscettici». 

Ma in quale direzione bisogna andare?
«Conservare i punti di forza, che ci sono, ed eliminare o correggere i punti di debolezza. Non dobbiamo mai commettere l’errore di sottovalutare gli effetti virtuosi del mercato unico ed il risultato della pace più duratura della storia del vecchio continente. Entrambi gli obbiettivi sono stati ottenuti grazie all’Unione. Ma il recente passato smentisce gli scenari ottimistici del funzionalismo teorizzato da Jean Monnet. Ciò che mina l’edificio comunitario è soprattutto il vuoto del principio democratico associato ad una preoccupante inefficienza nell’affrontare urgenze e problemi ordinari. Gli episodi sono gravi e ripetuti: l’affossamento della costituzione europea dopo il no di Francia e Olanda nel 2007; la sudditanza del parlamento di Strasburgo che continua ad essere relegato in  una posizione di sudditanza verso la Commissione e il Consiglio europeo; l’assenza di una politica estera e di difesa comuni; l’impossibilità di adottare un regime tributario omogeneo con la conseguenza di favorire nettamente i ‘paradisi fiscali’ mentre sono penalizzati i Paesi ad alta tassazione come l’Italia. Fino alla banale constatazione che il nostro Paese versa nella casse di Bruxelles più di quanto incassa. Dal 2008 al 2014 stando alla Corte dei Conti abbiamo accumulato un saldo negativo di 39 miliardi. Nel 2014 è stato di 5,4 miliardi. Se il sistema di finanziamento ha nel Pil il parametro dirimente è naturale che il nostro Paese diventi un pilastro del bilancio comunitario. Ora il saldo negativo è di 3 miliardi e 500 milioni di euro con un’incidenza procapite di 59 euro. Ma che cosa riceviamo in cambio? Per quanto consideri negativo l’esempio di Brexit, è tutto tranne che una domanda scontata». 

Perché ha definito il TTIP e il CETA trappole mortali?
«Il trattato di libero scambio USA-UE è stato archiviato già prima dell’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. La scorsa estate si è verificato lo stallo nonostante i 14 round di colloqui. Non è stata raggiunta l’intesa in nessuno dei 27 capitoli oggetto dei negoziati. E’ stato il vicecancelliere tedesco Sigmar Gabriel ad usare per la prima volta un termine inequivocabile come “fallimento” e a dichiarare che “gli europei non potevano accettare supinamente le richieste americane”. Abbiamo sprecato un’occasione che poteva essere molto utile per tutti. Un’area di libero scambio capace di includere 850 milioni di abitanti, che vale metà del Pil mondiale e un terzo del commercio globale, è un traguardo ambizioso. Ma si tratta di un disegno che avrebbe dovuto agevolare e non ostacolare lo sviluppo delle economie esportatrici come l’Italia, da troppo tempo alle prese con una domanda interna asfittica. Abbiamo corso il rischio di costruire un far west dove ad avere la peggio sarebbero state le nostre aziende».

Perché la pensa in questo modo?
«L’agroalimentare, un settore che vale 135 miliardi di euro di fatturato e l’8% del Pil, è la prima voce dell’export italiano: cuba 36,8 miliardi che dovrebbero diventare 50 miliardi entro il 2020. L’Italia vanta il primato in Europa per numero di prodotti di qualità certificata. Già oggi il mercato americano vale 3,2 miliardi di euro. Se abbiamo raggiunto questi importanti risultati è perché le nostre aziende sono state assolutamente ligie nella tutela dei diritti del consumatore. E’ grazie a questa attenzione che possiamo essere davvero competitivi sui mercati internazionali. Una predisposizione che ha trovato  nella cultura giuridica della UE una risposta pioneristica fin dal 1973 con la Carta europea di protezione dei consumatori, ribadita vent’anni dopo dalla direttiva contenuta nel Trattato di Maastricht che prevedeva l’obbligo della chiarezza in merito al contenuto del prodotto, tossicità, scadenza e modo d’impiego, e che è stata riconfermata nel 2000  con l'obbligo di contrassegnare gli alimenti con un'etichetta che dichiari categoria e provenienza. Certo, c’è ancora molto da fare ma siamo in presenza di un’impostazione che respinge la deregulation e la mancanza di trasparenza utilizzando il diritto come strumento di tutela della qualità e della sicurezza alimentare. Ed è proprio questo approccio lungimirante che è stata messo a rischio dagli accordi TTIP dove l’eliminazione delle barriere non tariffarie si traduce in un brutale azzeramento delle procedure e degli standard che sono alla base del successo delle nostre produzioni Dop e Igp. Una liberalizzazione selvaggia che schiaccia le nostre Pmi nella lotta impari contro le corporation americane e autorizza distorsioni come l’impiego degli ormoni della crescita e di ractopamina negli allevamenti bovini e suini, la cancellazione dell’obbligo di tracciabilità e di etichettatura per i prodotti Ogm, dei limiti sui pesticidi e sui lavaggi chimici. Le nostre Pmi non avrebbero potuto competere con i prezzi più vantaggiosi delle sottoproduzioni realizzate negli Usa esponendosi agli attacchi di un mercato dove la clonazione dei marchi è all’ordine del giorno. Il CETA ripropone questi rischi: soltanto una quarantina di indicazioni geografiche tipiche italiane risultano protette dall’accordo mentre tutte le altre potranno essere utilizzate dai prodotti canadesi. Parliamo di un comparto che annovera 1.300 prodotti alimentari, 2.800 vini e 380 distillati. Il Made in Italy è stato condannato a subire una concorrenza sleale e fortemente agguerrita. Il Canada è il nostro primo esportatore di grano duro ed è sicuro che aumenterà i volumi di vendita danneggiando soprattutto le regioni del Mezzogiorno. Il Parlamento europeo ha detto sì al CETA ma spero che l’accordo non sia ratificato dai legislatori italiani. Se ciò accadrà dovremo registrare l’ennesimo episodio di limitazione della sovranità nazionale provocato da un’Europa responsabile di una legislazione più liberticida che liberista».

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